Venafro, la porta del Molise
“Venafro ha la riposata gaiezza delle città campane; ai suoi orci affluisce ancora, come duemila anni fa, l’olio giallo e denso come miele che piaceva a Cicerone.” (Francesco Jovine)
Per chi arriva in Molise da ovest la prima città che si trova è Venafro, da cui il soprannome “porta del Molise“. Oggi come due millenni fa quando ad arrivare in regione erano personaggi legati all’Impero e alla Repubblica Romana, oltre a letterati e filosofi proprio come intuibile dalla frase d’apertura.
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Cenni storici
Il nome Venafro deriva probabilmente da “Omner Aper” a ricordare i cinghiali un tempo presenti nei boschi. Sorge ai piedi del monte Santa Croce, limitato dai due massicci del Matese e delle Mainarde ed è attraversato dal fiume Volturno.
Le prime notizie storiche risalgono all’epoca della guerre puniche quando fu conquistato da Annibale. Appartenne poi al ducato di Benevento in epoca longobarda, mentre nel periodo normanno e svevo fece parte della Contea di Molise. Durante la dominazione angioina fu feudo della famiglia della Torre. Suoi signori furono i Pandone (i più importanti), i Challons, i Colonna, gli Spinola e i Caracciolo che ne mantennero il possesso fino all’inizio del XIX secolo.
Nel passato è stato centro di collegamento tra il Sud, la costa adriatica, la costa tirrenica e Roma ed ancora oggi è nodo di passaggio fondamentale per l’entroterra molisana.
Da menzionare, in ultimo, il tragico avvenimento del 15 marzo 1944 quando aerei americani, scambiando Venafro per Cassino, la bombardarono, distruggendo la parte nord della città ed uccidendo trentacinque persone.
Cosa vedere
La zona è dominata dal Castello Pandone, edificato probabilmente nel X secolo e poi ristrutturato dai Durazzo e dai Pandone che ne fecero una residenza signorile. Inizialmente era una rocca fortificata cui furono aggiunti tre torrioni circolari e, in seguito, un loggiato che domina la valle. Enrico Pandone fece decorare due camere con affreschi raffiguranti i suoi cavalli preferiti, un unicum in quanto a grandezza naturale. Intorno all’edificio è presente un giardino all’italiana.
Visitando il territorio si possono ricordare le vicende storiche di Venafro. Nella zona “Madonna della Libera” tratti di mura, una villa, un teatro e l’anfiteatro Verlasce parlano dei Romani, la chiesa di San Nicandro del X secolo, collegata un tempo all’Abbazia di San Vincenzo, è un reperto artistico sito nel centro storico e presenta una notevole opera di Teodoro d’Errico raffigurante la Madonna, un portale e un rosone di notevole valore.
Nella cattedrale romanica dell’Assunta, sorta su un tempio pagano e nel corso dei secoli trasformata nell’interno, è conservata una tela della Vergine del 1590. L’arte fiamminga si può ammirare nella chiesa dell’Annunziata nei dipinti di Giacinto Diano e del Griffoni. Belle sono anche le formelle di alabastro del 1400 raffiguranti la passione di Cristo e un busto in argento di San Nicandro del XVII secolo.
Una testa d’argento del santo si trova nella chiesa del Corpo di Cristo. Un reliquario cesellato in argento, pregevoli altari e un dipinto di Nicola Maria Rossi sono nella chiesa di Sant’Agostino. Nel centro storico si trova Palazzo Caracciolo, sede degli ultimi feudatari. Nei pressi della villa comunale interessanti le sorgenti del San Bartolomeo con la fontana dalle quattro cannelle. Tra le visite consigliate, certamente quella al Museo Archeologico. Sulla montagna da vedere anche una torre di avvistamento di epoca romana, la cosiddetta “torricella”.
Importanti sono anche il cimitero francese all’ingresso del paese venendo da Isernia e la palazzina liberty. Essendo a brevissima distanza dalla linea Gustav numerosi sono gli avvenimenti relativi alla guerra ed i relativi rinvenimenti, perfettamente custoditi nel museo Winterline.
Tradizioni e gastronomia
Numerosi sono gli eventi che si svolgono in città. I “favor r’ San Giuseppe” (falò di san Giuseppe) sono i caratteristici fuochi notturni che, nella notte del 19 marzo, oltre a testimoniare la devozione al Santo, annunciano la primavera. La “corsa ri ciucc’” (corsa degli asini) si svolge a S. Nicandro, dentro al catino del Verlascio, l’antico anfiteatro romano. La “rotta r’ l’ p’gnat” (rotta delle pignatte) e “gl’albr r’ la cuccagna” (l’albero della cuccagna) sono giochi popolari che si svolgono intorno al castello Pandone in occasione della festa dedicata alla Madonna delle Grazie, 2 e 3 luglio.
Riguardo la gastronomia, il paese è noto per l’olio di pregevole qualità. È da segnalare, in tal senso, la presenza nel territorio del Parco Regionale dell’Olivo di Venafro. Tale Parco è la prima area protetta dedicata all’olivo, unica nel suo genere, nel Mediterraneo. La sua istituzione intende promuovere e conservare l’olivicoltura tradizionale che a Venafro ebbe fasti e splendori, tanto che i Romani ritenevano l’olio prodotto in loco il più pregiato del mondo antico.
Il prodotto tipico e più celebrato è “i v’scuott” (il tarallo). Ottenuto impastando farina, olio extravergine d’oliva, sale e finocchietti, “i v’scuott” si arrotola a treccia, si lessa e successivamente si inforna. Da qui “bis cotto”. Un’altra prelibatezza sono “l’nocch” (le chiacchiere napoletane) che è usanza mangiare a Pasqua e Carnevale. Altro piatto del periodo è la pastiera di riso.
Ancora, ci sono i “C’ciariegl’” (piccoli ceci), dolci tipici del capodanno e del periodo sono anche i “Sciusc’” (da soffio, ad indicare la loro morbidezza) cerchietti che si impastano con infuso di rosmarino, buccia d’arancia e di mele, fico secco, cannella, chiodi di garofano e vino bianco, il tutto fritto nell’olio; non manca poi il baccalà, “alla m’ntanara” (deriva da “m’ntan”, frantoio), o “ch’ì puorr” (coi porri).
Altri piatti sono il “cuanscion” (qua nessuno), realizzati con pasta frolla ripiena di bietole, olive ed acciughe, pasto tipico del Venerdì Santo; le “p’zzell” sono frittelle ripiene di cavolfiori, di baccalà o di alici; i “Turciniegl’” (attorcigliati) sono prodotti con pasta di pane arricchita da strutto e “cicur’” (ciccioli) di maiale; la “frttata r’ Pasqua” (frittata di Pasqua) che si prepara con tantissime uova, da 33 (gli anni di Cristo) in su, fino a 100 e la “pulenta ch’ì caurigl” (polenta verde) si ottiene invece mischiandola ai cavoletti “poverelli”.